PROFILO STORICO DEL TORCOLATO

A cura di Franca Miotti

La vite nel vicentino sembra abbia origine nell’Era Terziaria; in particolare nell’alto vicentino sono stati rinvenuti a Salcedo, lungo il fiume Chiavone, reperti delle prime vitacee attribuiti al genere dell’Ampelophyllum (Massalongo, 1851).

La metà del secolo scorso A. B. Massalongo classificò  l’impronta fossile di un grappolo d’uva e di una foglia di vite. E’ quindi probabile che queste vinacee (Ampelophyllum) abbiano dato origine, dopo le glaciazioni, a viti spontanee e selvatiche e da queste alla Vitis Vinifera. Altre scoperte archeologiche, quali vasi, bicchieri e coppe dell’era neolitica sono stati trovati presso Santorso (Bagolini, 1984).

Nel nord d’Italia, la vite ha sicuramente una tradizione antecedente all’impero romano; si pensa che i Veneti, giunti in Italia nell’età del ferro (XI-X secolo a.C.), grazie alle relazioni commerciali instaurate con gli Etruschi, abbiano sviluppato l’economia agricola coltivando vite, frumento, orzo, farro, miglio, lungo le colline poste vicino al torrente Astico (Lovo e Onorato, 1998). Le invasioni celtiche rompono i rapporti tra i Veneti e gli Etruschi, e facilitano l’instaurarsi di altrettanto buone relazioni tra i Veneti e i Romani.

Durante il periodo romano, il vino prodotto nel vicentino e nel veronese viene chiamato “retico” dovuto al nome dell’ampia zona di produzione, “Retica”, zona che comprende i territori pedemontani che vanno da Vicenza a Como (Buchi, 1987). I Veneti sanno sviluppare, in quegli anni, una viticoltura ed un’enologia sicuramente apprezzabili, fornendo ai legionari romani le necessarie vettovaglie per le varie campagne di guerra; anche le restrittive leggi agrarie di Domiziano non intaccano l’enologia vicentina, al contrario il vino è richiestissimo.

Il periodo buio che segue la dominazione romana s’arresta con gli Ostrogoti di Teodorico che, nel 489, riesce ad assicurare alla regione un periodo di pace a vantaggio dell’agricoltura e dell’enologia.
E’ Cassiodoro (485-580) a ridare prosperità alla zona vicentina e veronese, portando i vini delle due città nella corte di Ravenna.
Con le altre dominazioni c’è da ricordare l’Editto di Rotari (643), che sancisce il rapporto tra i Longobardi e la terra conquistata tutelando l’economia del posto (Diacono, 1878); Carlo Magno, che nell’anno 800, emana il capitolare “De villis”, un’ordinanza che elenca i vegetali che devono essere piantati e coltivati nei domini reali.

In esso, ben sei articoli riguardano la vite, la sua coltivazione, la vendemmia e la produzione del vino.
Con le invasioni degli Ungheri, l’agricoltura veneta viene annientata (Fasoli, 1945) e per difendersi dalle loro calate si costruiscono, ovunque, castelli e mura intorno alla città, fortificando anche le chiese e le abbazie, che divengono, in modi e tempi diversi, il fulcro del potere.

Nel Medio Evo la ripresa della viticoltura è dovuta, soprattutto, a motivazioni religiose (l’eucarestia viene celebrata con la somministrazione del pane e del vino ai fedeli); sono stati trovati, anche a Breganze, documenti di donazioni vescovili e di possedimenti di monasteri che testimoniano l’esistenza di terre vitate nel 923 (Pini, 1989).

Nei primi secoli dopo l’anno Mille, si incrementa la coltivazione della vite: spesso viene imposta dai proprietari nei contratti d’affitto, con determinate regole. Da alcuni documenti della zona dell’alto vicentino, risalenti al 1275-1291, si nota come viene distinta la destinazione delle colture in arboree e in viti, e in un contratto del 1223 di una località prossima a Breganze, si sancisce che all’interno dei due appezzamenti siano piantate viti in promiscuità con ulivi e seminativo (Maroso e Varanini, 1984).

Numerose sono le testimonianze, che oggi abbiamo, degli statuti comunali della provincia berica, che riportano disposizioni rivolte alla difesa e alla diffusione della vite, al problema dei trasporti, alla vendita all’ingrosso e al minuto dell’uva e del vino (Azzolin, 1999). Negli Statuti Cittadini del 1264 e 1311, vi sono norme su come acquisire i vigneti; mentre negli Statuti di Vicenza del 1264, per diminuire le occasioni di reato, sconfinamento o passaggi illeciti, c’è la possibilità di rettificare i confini che diano motivo di contrasti; esiste, inoltre, la possibilità di ampliare i propri confini con campi attigui, se il proprietario possiede un numero certo e stabilito di ettari coltivati a vigna (Lampertico, 1886).

Di particolare interesse vinicolo sono gli Statuti di Bassano del 1295, chiamati anche Codice “Vineale “o “Vignale”, in quanto costituiscono una chiara testimonianza della diffusione della viticoltura, nel territorio bassanese, e dell’importanza che ha la vite nel secolo XIII. Il Codice è il precursore di quello che oggi potrebbe essere chiamato “disciplinare di produzione” (Brazzale, 1999). E’ composto da 345 articoli, molti dei quali riguardano: la custodia dei vigneti dai furti, le pene in denaro e carcerarie per i ladri d’uva e di pali dalle vigne, la vendemmia, la vinificazione, la denuncia delle uve e del vino ottenuti entro il 1° novembre dell’anno di raccolta, e altro ancora (Chiuppari, 1905). Vi è inoltre, un rigidissimo protezionismo a favore dei vini locali, con multe a carico di chi “vada a bere vino aldilà del ponte, nelle taverne di Angarano” (Brentari, 1980); ci sono leggi a tutela del cittadino, per la mescita del vino nelle taverne bassanesi devono essere utilizzati bicchieri di vetro bollati dal comune, mentre i tavernieri devono conservare il vino in contenitori (otri) anche questi bollati ufficialmente. E’ divieto, cedere a scopo benefico, il vino ai questuanti. I rivenditori di vino al minuto devono essere muniti di licenza comunale (Fasoli, 1940). Disposizioni particolari sono riservate al vino bianco, che è sottoposto a controlli molto severi e necessita di una autorizzazione per la vendita. Vi sono norme anche per il “vino piccolo” o “acquatico” o “graspia”, vino prodotto dalla macerazione delle vinacce con acqua e destinato ai mezzadri e ai contadini, il quale deve essere denunciato entro venti giorni dalla sua preparazione e quest’ultima deve essere controllata dei “grandi estimatori” incaricati dal comune.

Nel 1300 vi è una nuova ripresa per la diffusione della viticoltura. La vite in collina è generalmente coltivata “bassa” e i vini sono prevalentemente bianchi a elevata gradazione, mentre in pianura è coltivata “alta” appoggiata a sostegni vivi o morti e i vini sono rossi. Un esempio è un contratto del 1385, relativo a un grosso podere di Breganze, dove si obbligano i contadini-affituari a impiantare nei dieci anni di durata del contratto, almeno due viti per ogni campo che ne fosse sprovvisto (Maroso e Varanini, 1984).

Nei primi anni del Quattrocento, la Repubblica Serenissima di Venezia conquista il Veneto e con esso l’alto vicentino, modificando il paesaggio della terraferma dove vengono trasferiti ingenti capitali e risorse umane. Si sradicano boschi, il cui legname rifornisce la cantieristica veneziana, si piantano viti e cereali, si costruiscono le prime ville attorno alle quali si articola una efficiente azienda agricola. Vengono potenziate le vie fluviali del vicentino per agevolare l’arrivo del vino a Venezia, e la nobiltà terriera vicentina ottiene dal Governo di Venezia protezione, privilegi ed esenzione dai dazi (Gullino, 1994). Rimane vigente il codice bassanese e si conferma il divieto di vendemmiare prima del termine fissato dal Consiglio (Chiuppani, 1905).

Nel Cinquecento il vino diventa un prestigioso dono offerto ai nobili che sostano in terra vicentina: si ricorda l’imperatore Carlo V che, ritornando da Vienna e diretto a Bologna, soggiorna a Sandrigo e ha in regalo un considerevole numero di carri di vino (Caldogno, 1977). I vini vicentini sono, comunque, assai reputati ed esportati un po’ ovunque, aldilà delle Alpi e nella stessa Venezia che persi i propri domini nell’Egeo non vuole rinunciare ai vitigni a cui è abituata e li fa piantare anche nelle terre di proprio dominio. Risale a quei tempi la diffusione delle Malvasie, del Vin di Cipro, dello stesso Vespaiolo (Lovo e Onorato, 1998).

L’enologia vicentina gode, inoltre, del contributo dell’architetto Andrea Palladio che detta norme tecniche per progettare e costruire le cantine: devono essere costruite sottoterra, lontane da rumori e odori, l’apertura deve essere rivolta a nord in modo da avere un ambiente a temperatura costante. Il pavimento deve permettere il recupero delle perdite dei travasi. Sopra la cantina di affinamento c’è il locale di vinificazione, in modo tale che le spine di travaso siano più alte del buco superiore delle botti, e far così confluire, con canali di legno, il vino dei tini nelle botti (Palladio, 1570).

Nasce la prima “guida turistica” del poeta, enologo, gastronomo Ortesio Lando, dove si evidenziano curiosità e piaceri della vita in un’Italia che, per la cucina e per i vini, è già famosa in Europa. Cita Vicenza per la qualità dei suoi vini, migliori di quelli del Friuli (Lando, 1553). Successivamente Andrea Scotto nel suo “Itinerario”, elogia la produzione vinicola vicentina e cita Breganze “famosa per i vini dolci e saporiti che produce” (Scotto, 1610). Questa è la prima citazione storica che può confermare la presenza di un vino dolce, probabilmente il predecessore dell’odierno Torcolato. C’è da ricordare che Venezia importava dall’Istria, dal Peloponneso, da Cipro e da Corfù vini dolci e passiti per uso interno. In una lettera di Taddeo Gaddi del 1384 c’è la conferma che a Venezia erano arrivate quattro o cinque navi da Candia cariche di vini preziosi (Calò et al., 1996). Così nel ritorno dai viaggi e dalle crociate, i veneziani che si fermavano lungo le coste del Mar Ionio, prendevano con sé fasci di tralci per farne barbatelle e creare, nell’entroterra, i propri vigneti. Quindi, Venezia, dopo la perdita delle isole della Dalmazia, dello Ionio e della Morrea, incrementò la coltivazione dei vigneti per far da sé vini dolci e delicati (è probabile che parte di questi vitigni fossero già coltivati nel Veneto).

In un’altra interessante pubblicazione del 1754, opera poetica che rappresenta una sorta di guida enologica della provincia di Vicenza, vengono citati trentacinque vini prodotti nel vicentino e Breganze appare tre volte, una volta annotando il “…dolce Vespaiuolo”. Questa frase racchiude importanti informazioni, in quanto unisce, per la prima volta, il termine dolce con il vitigno Vespaiolo. Nella nota a fine pagina del medesimo testo, l’autore, Aureliano Acanti (pseudonimo di Valerio Canati), riporta riferendosi al dolce Vespaiuolo “liquore sopraffino che si fabbrica a Breganze” (Acanti, 1754). Anche qui, si possono fare alcune considerazioni interessanti: il vocabolo fabbricare viene attribuito a quei vini che non sono stati fatti in modo naturale, ma ottenuti per mezzo dell’intervento dell’uomo. A conferma di ciò troviamo nel medesimo testo, “Il Roccolo”, che a Salcedo (paese vicino a Breganze che nel settecento era comune a sé, ma che per secoli aveva fatto un tutt’uno con Breganze), viene fatto il “il dolcissimo Pasquale” perché si fa verso Pasqua, tenendo fino a quel momento l’uva appiccata all’aria. Inoltre, il termine “liquore” significa che il vino è stato arricchito, addolcito ed è “oleoso” come i liquori.

Sempre in quegli anni, su sollecitazione dell’Accademia dell’Agricoltura (sorta nel 1769) viene fatto un primo lavoro inerente alla viticoltura e all’enologia vicentina: il Conte Pajello scrive una memoria sul modo migliore di coltivare le viti e di fare il vino. Classifica i vini vicentini in asciutti, liquorosi e appassiti su “arelle” (Pajello, 1774).

L’Ottocento è il secolo di radicali cambiamenti per la viticoltura vicentina: scompaiono molti vitigni e vengono sostituiti da altri provenienti dalla Francia. Nel 1829, Andrea Alverà fa uno studio sulle principali varietà della Vitis Vinifera coltivate nel comune di Fara; successivamente, nel 1855 a Vicenza, in occasione della prima “Mostra dei prodotti Primitivi del Suolo”, viene fatto un catalogo che elenca 120 varietà e uve a bacca rossa e 77 a bacca bianca (Calò et al., 1996).

Di particolare interesse sono le memorie del Pedrazza che scrive in maniera dettagliata le tecniche adottate dai viticoltori ed enologi e detta i primi consigli sulla potatura in funzione della vigoria del ceppo (Pedrazza, 1812). Iniziano a decadere le colture viticole di Bassano e Schio, mentre si avvantaggiano le aree di Breganze, dei Colli Berici e di Gambellara. Dal 1851 al 1860 le vigne subiscono il primo attacco dell’oidio e si rivela un decennio nero per l’agricoltura; nel 1854 manca quasi totalmente il vino sul mercato locale e si inizia a importare vini dalle terre vicine, mentre per una sorta di compensazione si accentua in quegli anni la produzione di liquori, di rosoli e di vini passiti (Lovo e Onorato, 1998). Iniziano a diffondersi anche i primi focolai della peronospora, con implicazioni sulla qualità del vino; le mancate produzioni inducono, oltre alle importazioni, a piantare i nuovi ibridi americani (Clinton, Isabella) resistenti alle fitopatie: questi vigneti pur ottenendo il favore dei viticoltori non aumentano la qualità del prodotto (Da Schio, 1905).

Sull’Agricoltore Vicentino del 1890 appare per la prima volta il nome Torcolato associato al vino dolce di Breganze, e dopo qualche anno, nel 1905, il Conte Da Schio, proprietario di una cantina, scrive un dettagliato volumetto sulla situazione viticola ed enologica vicentina, riportando che a Breganze, “…tra i vini bianchi si eleva il Torcolato frutto di ogni cura e venduto a prezzi elevati,…..soltanto dopo 5 o 6 anni il vero Torcolato viene posto nelle bottiglie, tenute allora nel massimo onore….l’onore, l’orgoglio di Breganze è il suo vino Torcolato…….”. Alla fine enuncia anche il modo di preparazione che è rimasto pressoché lo stesso nel tempo. Nel 1909, la Ditta Arnaldo Carli presenta il suo Torcolato all’“Esposizione di Lonigo”, vincendo la medaglia d’oro, e in una locandina pubblicitaria scrive che “è stato riconosciuto genuino dall’analisi chimica del Municipio di Padova per le sue proprietà toniche ed eccitanti, riesce ottimo in tutti i casi di debolezza di cuore, nelle dispepsie, da torbida funzionalità gastrica e nelle convalescenze di malattie acute e consuntive” (Breganze, 1997). Nel 1911, il 24 febbraio appare sul “Corrire della Sera” un articolo dedicato ai famosi preti di Breganze, gli Scotton, dove il giornalista apre l’articolo scrivendo di Breganze “… è famoso il suo Torcolato, un vino ch’è un liquore”. Due anni dopo, un altro produttore breganzese ottiene il primo premio, medaglia d’oro, per il Torcolato alla “Gara civile d’Igiene e di Alimentazione in Genova”. Altri articoli giornalistici cantano le lodi del Torcolato di Breganze descrivendo più volte l’appassimento delle uve e l’affinamento consigliato di alcuni anni (Azzolin, 1999).

Nel 1914, Breganze e tutto il vicentino risentono dell’attacco della fillossera diminuendo rapidamente le produzioni. Fortunatamente l’opera di ricostruzione su piede americano non subisce ritardi e nel 1925, sotto la direzione della Stazione sperimentale di Conegliano, viene istituito il primo vigneto sperimentale (Calò et al., 1996).

Dopo la seconda Guerra Mondiale, a causa dei danni riportati ai vigneti, inizia, per la zona di Breganze, una seconda fase vinicola: gli impianti vengono eseguiti più con l’idea di aumentare le rese che per migliorare qualitativamente la produzione.

La prima Denominazione d’Origine Controllata per la provincia di Vicenza è “Breganze” con il Dpr del 18 luglio 1969 riconoscendo come vini DOC: “Breganze Rosso”, “Breganze Cabernet”, “Breganze Pinot Nero”, “Breganze Bianco”, “Breganze Vespaiolo”, “Breganze Pinot Bianco” (Gazzetta Ufficiale del 4.9.1969). In seguito al riconoscimento della prima DOC, sono avvenute altre tre modifiche: nel 1978, 1982, 1995. In quest’ultima rientra anche la DOC Breganze Torcolato.

Il nome Torcolato si pensa derivi dal latino torculum cioè torcere, stringere forte; in molti dizionari viene riportato come “vino passito che con la pigiatura dà poco mosto e il succo deve così essere ottenuto con il torchio” (Azzolin, 1999). Molti attribuiscono l’origine del nome dal fatto che le uve per essere appassite vengono attorcigliate (intorcolà) per mezzo di uno spago: con il filo si fa un anello e si attorciglia l’uva girando lo spago tra un grappolo e l’altro. Questo forma una fila verticale di grappoli chiamati in dialetto locale “rosoli”. Ogni rosolo viene appeso alle travi delle soffitte, posto caldo e ventilato, grazie alle finestre a livello del pavimento, tipiche delle casa coloniche del breganzese.

Molti produttori utilizzano ancora questo sistema per porre l’uva ad appassire, anche se per il 95% dell’uva posta in appassimento vengono attualmente usate cassettine di plastica forate sui cinque lati per avere una migliore circolazione d’aria. Questo permette di maneggiare meno il grappolo d’uva, evitando così rotture involontarie degli acini, facilita il controllo dello stato di appassimento e di preservazione dell’uva.

Alla fine del processo si ottiene un vino dolce, da fine pasto, detto anche da “meditazione” o meglio da “conversazione”. Si abbina bene a dolci di mandorla, pasticceria secca, formaggi stagionati ed erborinati, crostacei e piatti a base di patè di fegato d’oca.

Share This