IL TORCOLATO SECONDO VIRGILIO SCAPIN

A Breganze le vendemmie e le spremiture potevano avere facce diverse. 


In settembre i contadini più esperti precedevano i vendemmiatori e raccoglievano i graspi più belli di bresparola, tocai e pedevenda, più esposti al sole, arrampicandosi sul pregadio.
Quest’uva portata nei granai e appesa alle travi del soffitto, era torcolata a degli spaghi in bella mostra. L’operazione, che permetteva ai grani di appassirsi lentamente all’ombra fresca senza ammuffire, esigeva un gran soprammanico.

La torcolatura durava fino a gennaio. Gli acini maturi diventavano regali ambiti dai bambini, come fossero tante caramelle. I Re Magi, il giorno della befana, portavano quest’uva torcolata in aggiunta a oro, incenso e mirra. A carnevale, sui torchi prodotti dalla ditta Lavarda l’uva veniva torchiata e questa manovra durava molti giorni. Dopo una lunga spremitura, i contadini prendevano le graspe pressate, le ponevano a sgocciolare in una federa immacolata.
Finalmente nasceva il Torcolato.
Il nettare dolcissimo veniva travasato e abbandonato nella cantina a maturare. Qui si affinava per quattro anni. Dopo il torcolato aumentava di importanza, veniva prescritto come ricostituente alle puerpere, alle donne che allattavano, agli anemici.

Questo Torcolato era il degno coronamento delle leccornie tipiche di Breganze i toresani allo spiedo che si degustavano all’albergo Al ponte di Bonato. Col Torcolato nel 1909 Arnaldo Carli vince all’esposizione di Lonigo la medaglia d’oro. Azzolin porta a casa da Genova nel 1913 un’analoga onorificenza. Ora ogni famiglia conserva le proprie bottiglie di Torcolato da stapparsi nel giorno di una circostanza particolare. L’archivio familiare è conservato nell’angolo più fresco della cantina. Qui, le etichette si staccheranno, ma il vino una volta stappato continuerà ad avere il sapore della fantasia.

VIRGILIO SCAPIN
10/02/2006

……Un tempo l’uva faceva anche da companatico. I contadini più poveri la sposavano con la polenta: meglio l’uva americana, era profumata e con il suo sapore alzava il gusto della polenta, spesso insipida; quei contadini così poveri non avevano neanche i soldi per comprare il sale.

Andava bene anche l’uva bresparola  e la pedevenda, a Breganze crescevano a vigneti interi, offrendo companatico abbondante. I bambini avrebbero preferito la loro polenta nello zucchero o insaporirla con qualche cucchiaino di miele, ma zucchero e miele non crescevano sui campi come l’uva, che i contadini poveri potevano rubare.

Il conte Bartalomeo Bartalomiotti possedeva a Breganze moltissimi campi in pianura coltivati a frumento, mais e erba spagna e tanti vignali in collina. Quando la biade erano mature e l’uva pronta da vendemmiare, girava in calesse a vigilare i sui beni.

Teneva la schioppa sempre a portata di mano e quando vedeva uscire dalle sue tenute i ladri con i sacchetti pieni di pannocchie e i cesti con l’uva dentro, scattava in piedi e sparava. Incitava il cavallo fino alle corti dove abitavano i ladruncoli, si alzava in piedi sul calesse e urlava che fino ad allora aveva sparato in aria, ma che d’ora in poi avrebbe preso bene la mira.
Una sera era arrivato sopra la villetta dei Pitote, la cavalla era coperta dalla schiuma bianca del sudore. Era saltato a terra, piantandosi davanti a un contadino che mangiava polenta e uva. Mangiatore a tradimento, gli aveva urlato, fissandolo negli occhi. Il contadino era rimasto con la bocca aperta, piena di polenta e uva.

Quella polenta e uva divorata con tanta avidità, aveva intrigato la mente del conte e per tutta la notte non aveva chiuso occhio. La sua ricchezza era tenuta insieme anche da una tenace avarizia, nessuno spreco era ammesso in villa, a cominciare dal cibo. Pasti frugali per tutti, a cominciare dai famigliari, cantine granai ben chiusi a chiave. Quella polenta e uva poteva diventare una variante ai soliti mangiari della casa.

La mattina il conte si era alzato di buon umore, aveva ispezionato i granai ancora colmi di frumento. Aveva chiamato il castaldo e dato ordini. Fate vendemmiare l’uva più bella, più sana e fatela appendere alle travi. I contadini avevano attorcigliato i grappoli di uva con gli spaghi, cascate di uva pendevano dalle travi.

Un’enorme polenta fumante era piazzata in mezzo alla tavola, graziosi cestini colmi d’uva sistemati davanti ad ogni commensale. Il conte, in piedi, tagliava la polenta con il refe e distribuiva le fette calde. Aveva inventato un dolce con la polenta e l’uva. Fece cuocere la farina gialla nel brodo di cotechino e verso la fine della cottura aggiunse manciate di chicchi d’uva, insaporendo l pastone con fichi secchi, foglie di alloro. La strana polenta, avvolta in foglie di verza, era biscottata sotto le braci, in un angolo del focolare.

L’avarizia del conte aveva sempre tenuto lontani dalla villa, gli amici di città. Un giorno aveva spedito il castaldo con gli inviti. I cittadini, incuriositi, erano arrivati puntuali in villa, il conte gli aveva accolti sorridente. Prima del pranzo avevano visitato i vigneti carichi di uve e il conte li aveva invitati ad assaggiarle. Gli ospiti si guardavano di sott’occhi, stupiti di tanta prodigalità.
Per chiamare i conviviali sparsi, aveva suonato la campanella. I contadini a quel suono si erano segnati con il segno della croce. Nel mezzo della tavola troneggiava una grandissima polenta, contornata di cestelli di frutta.

Quando gli ospiti si erano accomodati, la castalda era entrata nella sala reggendo un lungo refe tra le mani. Il conte l’aveva preso in consegna e con incedere sacrale si era avvicinato all’enorme sole della polenta e con il refe aveva iniziato a smembrarla, distribuendola.
Gli ospiti si erano divertiti a quella cerimonia  e avevano cominciato a mangiare la polenta fumante sposandola con l’uva dei cestelli. Il conte aveva spiegato che quello era il piatto rituale dei contadini per la buona riuscita della vendemmia. La tradizione proibiva l’uso di qualsiasi bevanda, loro avrebbero infranto quella regola. Il castaldo aveva messo in tavola delle bottiglie di non eccelsa qualità.

Quando la castalda aveva portato la polenta dolce biscottata sotto le braci, il conte si era alzato, era uscito, eclissandosi. Non era più tornato, e gli amici scornati e gonfi di polenta e uva se ne erano tornati in città.
Nessuno aveva più accolto gli inviti del conte e i famigliari, quando arrivava in tavola la polenta con l’uva, se ne andavano per i fatti loro. Intanto l’uva in granaio si asciugava, senza marcire. Il Conte era rimasto l’unico a mangiarla con la polenta. Sotto le feste di Natale avrebbe potuto riempire tanti cestelli e farne dono agli amici. Ma la sua avarizia ebbe il sopravvento.

Aprì la cantina e ordinò al castaldo di spremere quell’uva, altrimenti si sarebbe essiccata. Dovette torchiarla e ne uscì un mosto dolcissimo che riempì una botte. Quel vino denso fermentò per lunghissimo tempo, maturando un gusto delicatissimo. Il conte avvicinava l’orecchio alla botte e ne sentiva l’anima gorgogliante e ringraziava ospiti e famigliari che non gli avevano divorato tutta l’uva raccolta e appesa in granaio.

Firmino non invita i suoi amici a mangiare polenta e uva. Serve loro cibi appetitosi, accompagnati dai suoi vini sempre più premiati. Alla fine chiude con il suo torcolato che ha già vinto ben tre medaglie d’oro per il suo gusto alla frutta candita, mela cotta, albicocca, mallo di noce.


In una gelateria di Breganze servono un gelato al torrone affogato nel torcolato sempre di Firmino.
Mai affogamento è stato più dolce e rapinoso. 


Virgilio Scapin

Agosto 2001

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