VIRGILIO TRA PENNE E POSATE

Conosco questo grande interprete della letteratura veneta ed italiana da decenni ed ho sempre in mente la sua incredibile capacità di sintesi intellettuale, di fermento, di vitalità, come se si dovesse, presto, fare. Ma l’aspetto è pacioso, si tiene le mani come un prevosto, l’ha imparato sicuramente in Seminario dove ha percorso, giovanissimo, solo un tratto della sua chiamata, per tornare, presto, nel consesso del mondo laico.
Così abbiamo avuto uno scrittore che ha vinto un Grinzane Cavour, un premio Comisso, è stato finalista del Campiello, ha pubblicato diversi volumi senza mai ritenere che si possa imparare a scrivere frequentando chi frequenta la letteratura, pur avendo avuto rapporti vivificanti con scrittori quali Comisso, Parise, Piovene, Neri Pozza.

                                                                                                                                                                                                                               (Alfredo Pelle)

 

 

Ha scritto una serie di libri che hanno percorso la seconda metà dello scorso secolo con arguzia, lieve ironia, testimonianza degli usi e dei sentimenti della gente, ha scritto in modo schivo, alieno dalla demagogia, ha fatto costante riferimento alla memoria.
Mi diceva, di recente, che non crede negli scrittori “fantastici”, intendendo parlare di coloro che producono storie fuori del vissuto: ritiene che, sempre, la scrittura e la narrativa che ne è la risultante, non possono esistere fuori del “personale” che si è vissuto. I
l problema, dice, è la sensibilità alle cose che ti hanno sfiorato, o interessato, o comunque toccato lo spirito.

Tutto questo mi è venuto in mente proprio ora che è stato premiato, nella bellissima Villa Cordellina, quale gastronomo di chiara fama. Ho avuto lunghissime frequentazioni con Virgilio, tranquillamente accomodato nella bassa poltrona rossa che aveva in negozio, quella specie di teatro nel quale viveva.
Stavo seduto “in una immobilità da erme” scrisse Marco Cavalli sul Giornale di Vicenza quando chiuse definitivamente il negozio alla fine del 2003, per lungo tempo senza aprir bocca, finché si riprendeva un discorso prima intrapreso e presto bloccato. Qui l’ho conosciuto come gastronomo, come gourmet ed ancor più come gourmand.
“Non sono un gastronomo”, mi diceva, “ tu lo sei. Io mi sono interessato alla gastronomia pensando alla mia infanzia. Mia nonna aveva un bel pollaio e quando copava un pollo ne dava un pezzo a mio padre e uno agli zii Mario e Bortolo. Era fatica far quadrare il cerchio di un pollo in tre pezzi.. Nella spartizione di questi polli avevamo anche noi nipoti il nostro buono: ci faceva le trippette di pollo. Prendeva le budelle e le puliva per bene usando un ago da calza, poi le cuoceva con cipolla, pomodoro e spezie.
Mi è rimasto sempre dentro questo dono, non ho mai pensato che fosse un piatto banale. Era un piatto vero che mi aiutava a guardare nelle cose vere. Così  sono un amante della tradizione ed amo i piatti della nostra gastronomia che sono sbucati, ad un tratto, nella mia vita, di soppiatto, come una riscoperta.

Mia madre, quando tornavo dal collegio preparava dodici uova ed era un tripudio. Amo ancora le tajadele, la minestra maridà (risi e tajadele), i risi e bisi, i bigoli, il polastro in tecia, la faraona, le erbe spontanee. C’è un filo diretto fra il cibo ed il crescere della mia fama come scrittore: sono iniziati gli inviti in tutta la città ed il cibo è divenuto un legante, una scusa, un’occasione per avermi ospite. Sono andato ovunque: il prosciutto di Parma e la spalla cotta di San Secondo le ho mangiate in loco e con Beppe Maffioli, che ho molto amato e del quale ero grandissimo amico, ero compagno di scorrerie per trattorie. Era straordinario anche come cuoco. Un vero ras che ha sostenuto e rilanciato la gastronomia trevigiana. Ho girato tutte le trattorie della provincia con Tognazzi, con germi, andavamo speso da Alfredo Beltrame del Toulà.

Così non molti anni or sono da Zanatta sono stato eletto “Santo mangiatore”. Nella mia vita non ho mai accettato nessun modernismo gastronomico., di nessun tipo. Prendi la polenta : sia maledetto chi non la sa fare. Deve essere soda, deve essere un sole. Una volta c’erano questi “soli” in campagna: ci si avvicinava in silenzio a questi enormi “panari”. In silenzio perché tutti avevano fame e con la fame non si parla.
Ora fanno la “polenta diarrea”, morbida, da cucchiaio, non vale niente. Ho visto su una rivista una polenta  che sembrava una enorme “boassa” pettinata: l’avevano incisa con i rebbi di una forchetta. Un disastro!
Da giovane ho assistito più volte alla demolizione scientifica di una fetta di salame. Si scaldava la fetta in una padella di ferro, mai lavata e quando era scaldata si impugnava una fetta di polenta e la si intingeva in questo salame straordinario, caldo ed untuoso. Si mangiavano quattro o cinque fette di polenta con questa fetta di salame, sostituita, nei tempi tristi, con fette di sucoi enormi che si distruggevano intingendo nello stesso modo.

Vado matto per i salumi: la sopressa è una divinità. Culatello, spalla cotta, prosciutti e speck vari stanno alla base di un altare su cui vedo la santità della sopressa. E c’è su di me una vendetta ( non so chi si diverte a prendermi per i fondelli): non amo i formaggi. Mangio solo, “obtorto collo” la casatella ed il mascarpone.

Mio nonno aveva un orto in città, ora vi hanno costruito sopra un condominio. Coltivava di tutto, aveva una vite marzemina dal profumo e dal sapore straordinari, come avevamo il clinto ed il frambuo. Avevamo galline, conigli, api e là in fondo c’era l’uva spina. Quando passo lì davanti mi sembra che la terra di dica: demoliscilo questo maledetto condominio, voglio tornare ad essere orto.
Insomma non conoscevo altro che la tradizione: come potevo non amarla? Ho, fra l’altro, un record personale di 54 fiste (pispole) allo spiedo, quando  gli uccelli dal becco gentile erano permessi. Ora in una spoecie di nemesi storiaca, in una legge del contrappasso vivo di poco e ne escono dalla mia mente rinforzati i ricordi ed i desideri.
E così è anche il mio rapporto con il baccalà. Io sono nato Priore (Scapin è Priore della Venerabile Confraternita del Bacalà alla Vicentina ndr) ed il priorato è importantissimo. Quando andai al Campiello mi chiesero cosa preferivo fra l’essere Priore e il vincere il Campiello. Non ho avuto dubbi a rispondere: il Campiello lo si fa una volta all’anno il Priore lo si fa per la vita.

E’ indubbio che io ho dato visibilità alla Confraternita, della quale, indegnamente anche tu fai parte, e da essa ho ricevuto fama di gastronomo. Tutti sanno del mio amore per il bacalà, le battaglie che ho sostenuto contro i demoni del modernismo (Vissani in testa che voleva cuocere il bacalà in un quarto d’ora), tutti conoscono i miei anatemi contro un mondo che tutto vuole attualizzare, omologare. Ve l’immaginate le trippette de polastro surgelate?

Ogni anno  nel settembre sandricense il mio discorso, rivolto da Capo carismatico ai Confratelli, è un chiaro riferimento allo sfascio al quale ci stiamo sempre più avvicinando: una cucina che non ha più una direzione, che si rivolge ad ogni materia come fosse la propria, che sta distruggendo la tradizione ed i ricordi, che sta mutando i sapori in un’omologazione impersonale e dannosa.”
Ha terminato questa conversazione dicendomi:
“E poi, mona, cosa mi domandi?
Abbiamo, insieme, provato oltre venti  trattorie e ne ho fatto testi per il mio ultimo libro “I magnagati”.
Eri con me ed hai visto cosa e come mangio. Non ti basta per conoscermi come gastronomo?”
In effetti questo libro è così dedicato :
“ Non ho la macchina.
“Non so guidare.
“Alfredo Pelle mi ha tolto dall’imbarazzo
“Gli dedico questo libro.
Ha ragione, una volta ancora, Virgilio!

                                                                                                                                                                                                                       Alfredo Pelle

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